L'Azienda e la sua Storia
La nostra azienda ha origini antiche. Come i vigneti, come gli alberi, qui anche le famiglie sono radicate saldamente nel terreno, affondano le proprie origini in quella terra che tanto amano e che spesso sono costrette a lasciare, ma cui sempre ritornano nel loro cuore, nei loro pensieri. Anche noi, come tanti quindi, abbiamo una storia da raccontare: e non si tratta di una storia grande, fatta di grandi uomini e grandi avvenimenti. Questa è una storia di piccole cose, cose insignificanti, dettagli minuti, odore di terra e di erba tagliata, foglie che cadono, grappoli che cambiano colore, contadini nei campi, giorni di lavoro uguali, monotoni, faticosi: qui si raccontano tutti quei fatti particolari, tutte quelle persone che, nell’ombra, tutte insieme, hanno fatto la storia, la grande storia di una grande terra.
Boeris Edoardo: le origini
Nel momento in cui inizia la nostra storia, niente qui era come lo vedete oggi. Per avere un quadro verosimile della realtà in cui siamo nati, dobbiamo fare un salto indietro di circa 150 anni. Alla metà del XIX secolo, Bionzo era una importante borgata del lontano (almeno per i mezzi di trasporto dell’epoca) comune di Costigliole d’Asti: era un territorio di confine, che viveva in modo quasi indipendente dal centro comunale. La strada che la collegava alla vicina frazione di Boglietto era da poco stata costruita e quella più antica che la metteva in comunicazione con Burio, e da lì, con Costigliole, era stata recentemente riattata. Si trattava di importanti arterie di traffico: vie di comunicazione che consentivano raggiungere le varie località del comune con mezzi di trasporto comodi, data la larghezza delle carreggiate, e in tempi molto più ragionevoli, rispetto al percorrere gli stretti sentieri che tagliavano i campi, sui quali a volte un carro passava a stento, se e quando il sedime stradale lo consentiva. Su queste antiche strade, nel corso del Novecento, si è poi installata la rete stradale attuale. Tuttavia, questo non ci deve indurre in errore: si trattava di strade di terra, ricavate sui crinali delle colline, più o meno livellate e battute dal passaggio di carri, bestiame, persone, fredde e fangose nei mesi invernali, torride e polverose in quelli estivi. E il fatto che fossero trafficate, significa che percorrendole, avremmo incontrato qualche carro in qualche ora di cammino: la gente si spostava a piedi e prediligeva le scorciatoie campestri.
Le cascine erano sparse sulle colline o allineate lungo la via principale: erano vicine ad una vigna di solito o a campi coltivati, che si sviluppavano nelle vallate che si costituivano allontanandosi dalla strada di crinale; non avevano quasi mai cancellate e la strada di terra confluiva naturalmente in un cortile, anch’esso di terra, popolato di contadini arsi dal sole, animali da cortile e attrezzatura agricola elementare sparsa. La chiesa già torreggiava dall’alto del suo bricco, immobile, a millenaria difesa della vallata dalla quale si levavano i volti dei campagnoli per intravedere nel campanile la fine della loro giornata di lavoro. Per una di queste strade, così descritte, calpestando la polvere con le scarpe lucidate di fresco, o dondolando alla guida di un carro, deve essere passato il nostro avo, Edoardo Boeris. Il Signor Boeris era un uomo di lungimiranti vedute, era operoso, laborioso, instancabile, con la schiena sempre piegata dentro un filare, con una zappa o una falce sempre stretta nelle mani nodose. Era originario della frazione di San Michele ed era un uomo di bell’aspetto, alto e distinto, quasi che lo si sarebbe facilmente potuto scambiare per un signore borghese vedendolo con il vestito buono, alla domenica a messa o dal fotografo, quando fu scatta questa (forse unica) foto. In giovane età aveva conosciuto una fanciulla di Castiglione Tinella, la signorina Teresa Arione e l’aveva spostata. Lei gli aveva portato in dote alcuni terreni in Val Tinella e dato tre figli, Pierino, Irma e Laura, lui aveva messo da parte un piccolo gruzzolo e, con tutti i sacrifici che quel tempo lontano rendeva necessari, aveva costruito una casa. Chissà cosa vide in quel versante di collina piegato verso est, chissà cosa lo convinse a stabilire la propria famiglia su quel Bricco dei Quaglia, in Bionzo, a metà di una strada che si perdeva nella Valle del Cioccaro, dove siamo ancora noi oggi, imprevedibili attori di altrui scelte lontane. Così, mattone dopo mattone, giorno dopo giorno, Edoardo mise in piedi la propria vita, così come la propria casa: la cascina si affacciava a est su una valle aperta, che metteva in comunicazione la Valle del Cioccaro alla Val Nizza e a Calosso, dando le spalle alla strada e al centro abitato di Bionzo, qualche vigna più a ovest. L’abitazione era disposta su due piani ed era direttamente collegata, tramite un porta in cucina, alla stalla e al soprastante fienile, che, protendendosi nell’aia, formavano nel complesso un edificio a L. Come già detto Edoardo era un gentiluomo, ma era anche un comunissimo contadino della sua epoca: la mattina presto, alle 4.00, appena albeggiava e c’era sufficiente luce, indossava i vestiti lisi del lavoro in campagna, un paio di zoccoli di legno in pessimo stato, salutava la moglie con un cenno del capo e, preso con sè il carro partiva alla volta della Val Tinella, per coltivare i poderi che là aveva. E così mattino dopo mattino, giorno dopo giorno, anno dopo anno, al punto che i buoi aggiogati al carro conoscevano a memoria la strada. A guardarlo bene in viso, in ogni ruga che solcava la sua pelle, si sarebbero potuti leggere una privazione, un dispiacere, un desiderio mortificato, i suoi occhi, chiari, messi in ombra da folte sopracciglia sempre aggrottate, riflettevano probabilmente l’espressione di chi, nella vita, aveva visto poche cose belle. Eppure ogni parte del suo corpo, ogni muscolo, ogni fibra, finanche la più piccola parte di quell’animo, esprimeva una forza a noi sconosciuta, una streniutà quasi bestiale che spingeva incessantemente avanti quelle membra prostrate dalla fatica, bruciate dal caldo e dal freddo, in un continuo, alienante alterarsi di lavoro, sonno e –poco- mangiare. Non era una creatura fuori dal comune: i nostri antenati erano così, forgiati e temprati dal lavoro, votati al sacrificio e alla fatica, alla coltivazione di una terra aspra e dura che sapeva dare pochi (e all’epoca ancora poco apprezzati) frutti. Non doveva essere un uomo particolarmente allegro, all’epoca solo i ricchi e gli stolti potevano permettersi di esserlo, ma a funestare ulteriormente la sua esistenza e quella di altre migliaia di persone arrivò un flagello che nessuno poteva prevedere, quanto a entità e conseguenze: la Grande Guerra. Edoardo, da servitore della patria e da suddito di una monarchia che inseguiva sogni di grandezza a spese della povera gente, fu costretto a prendere le armi: nel 1915, lasciò la moglie, i suoi bambini, la sua cascina e la sua terra. Fu mandato a combattere il nemico in Africa, un nemico che non gli aveva fatto nulla e che non conosceva: entrambi avevano avuto la sfortuna di essere parte di schieramenti opposti, qualcuno, più sfortunato di altri, si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato e chiuse gli occhi per sempre. Non fu così per Edoardo: poco dopo essere arrivato al fronte contrasse la malaria e si ammalò gravemente; la febbre lo tormentava al punto da costringerlo in un letto al campo italiano. Era inabile alla guerra. Dopo infiniti giorni di sofferenza chiese al comandante del battaglione di essere rimandato a casa: le sue condizioni erano critiche. La risposta non fu delle più incoraggianti: il suo superiore gli disse che non poteva lasciare il campo, che sarebbe morto in mare durante la traversata, che sarebbe finito an buca ai pes (in bocca ai pesci). Lui invece era sicuro di poter tornare e rassicurò l’ufficiale garantendogli che sarebbe migliorato avvicinandosi a casa, fino a guarire. Lo lasciarono andare senza troppe speranze per la sua vita e, contrariamente alle previsioni, superò la traversata, vedendo la propria salute acquisire maggior vigore a mano a mano che si riconosceva su pendii erbosi e valli profumate di grappoli maturi. Guarì in modo definitivo e, terminata la guerra, si adoperò al fine di ricostruire una nazione dilaniata dalla miseria, in mezzo alla quale prese forza il movimento fascista. Trapassò serenamente molti anni più tardi, nella tranquillità della sua casa, circondato dall’affetto dei suoi figli ed in particolare da Pierino, al quale aveva lasciato la custodia del suo podere e della Cascina del Bricco Quaglia, certo che il suo nome sarebbe sopravvissuto alla sua persona, proiettato nella figura del nipotino, Edoardo Boeri.
Boeri Pierino e la seconda generazione
Colui che prese in mano l’azienda fu Pierino. Di lui purtroppo il tempo ha cancellato molti ricordi e ben più breve di quella di suo padre sarà la storia qui raccontata per lui. Pierino nacque nel 1915 a Bionzo, in via Bricco dei Quaglia, nella cascina costruita da suo padre che oggi si trova al civico 8 della stessa strada. Fu battezzato come Pierino Boeri, in quanto Edoardo, per alcuni errori burocratici, aveva ritenuto opportuno elidere la s finale del suo cognome, per evitare alcune problematiche sovrapposizioni che, negli anni, gli avevano causato non pochi grattacapi. Pierino era terzo di tre figli, ma era anche l’unico maschio e, rispetto alla mentalità dell’epoca, risultò privilegiato: le sue due sorelle si maritarono e portarono con sé poche lire e qualche corredo ricamato a mano. In breve, data l’avanzata età di suo padre, si trovò padrone di una piccola fortuna che portò avanti sanza ‘nfamia e sanza lodo, arrabattandosi come Edoardo prima di lui tra la coltivazione delle vigne e la cura del bestiame. Si innamorò di una ragazza di pochi anni più giovane di lui, che abitava a Bionzo sul Bricco Borgnetto: Rosso Orsola, meglio conosciuta da tutti come Sola, era una donna energica e determinata, autoritaria e di certo fin troppo risoluta per il giovane Pierino, per il quale giocavano a favore solo il benessere della sua famiglia e l’avvenenza dei suoi tratti. Non lo amava, ma che ciò non crei stupore: per l’epoca era prassi di uso comune che le giovani fanciulle fossero date in sposa a uomini pressoché sconosciuti e, per quanto barbara possa sembrare (ed essere) questa pratica a primo avviso, essa nasconde un fine, se non proprio premuroso, quantomeno compassionevole.
In un’epoca in cui il ricordo di un conflitto di proporzioni mondiali ancora turbava il sonno dei reduci, in un momento in cui non si contavano gli orfani di guerra e le vedove, in cui i bisogni più elementari venivano castigati, in cui le privazioni erano all’ordine del giorno e in cui la miseria del dopoguerra si sommava alla crisi, quella finanziaria del ’29 e quella sociale di stampo fascista, le famiglie cercavano, con la saggezza di chi ha conosciuto il mondo ed i suoi controsensi, di trovare una sistemazione decorosa per le figlie: cosa importava se il marito era vecchio, brutto o cattivo? Fintanto che le manteneva faceva il suo dovere. A cosa serviva l’amore? L’amore non si poteva mangiare. In questa logica ragionarono probabilmente i signori Rosso quando Pierino Boeri bussò alla porta della loro casa per chiedere la mano della figlia. Egli non aveva nulla che non andava: era alto e aitante, aveva una folta capigliatura e un sorriso sveglio, era anche lui di Bionzo e questo in sé già era una garanzia; in più apparteneva ad una famiglia rispettabile e benestante. Era perfetto. Si sposarono appena ventenni nella chiesa di San Siro in Bionzo: Orsola salì sulla collina a piedi, avvolta in un lungo vestito bianco, uno dei primi esemplari chiari dopo anni di nero. Stringeva un bouquet di fiori in mano e camminava su tanti tappeti, disposti sul piazzale antistante la chiesa affinché la sposa non si sporcasse. Parevano felici…. L’anno dopo arrivò un figlio e fu chiamato Edoardo, in onore dell’anziano nonno, che, ormai curvo sul suo bastone, trascorreva le giornate nell’aia, seduto sotto il fienile d’estate e dentro la stalla durante le lunghe sere invernali. Inutile dire come ancora una volta la grande storia venne ad interferire con la tranquilla esistenza di queste brave persone, dedite al lavoro, alla preghiera e alla cura della casa e della famiglia. Scoppiò la seconda guerra mondiale.